Gli anni solari si chiudono e si aprono liturgicamente richiamandoci la sacra famiglia di Nazaret: «Prese dimora in una città chiamata Nazaret. Perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: sarà chiamato Nazareno!» (Mt 2,23) ed il discorso e la riflessione continuano così sul «Verbo fatto uomo» e che perciò di ogni uomo assume carne, parentela, ambiente, consuetudini.
Ma rimaniamo alla notizia, semplice, con cui Matteo conclude una pericope dei suoi vangeli dell’infanzia, introducendoci ancora una volta ma sempre più profondamente nel mistero di Dio.
Era nell’ordine naturale delle cose che Giuseppe, ubbidendo al comando dell’imperatore romano si recasse a Betlemme per il censimento; era nell’ordine naturale delle cose che si portasse a Nazaret, per vivere la sua risposta a Dio, per consumare la sua vocazione.

Vi giunge come un emigrato. Con delicatezza e discrezione stabilisce i rapporti di vicinanza agli altri, di amicizia, di fedeltà alla tradizione e alla mentalità dell’ambiente; lavorando come lavorano gli altri, per avere il sufficiente alla vita come lo hanno gli altri, allontanando come gli altri ogni desiderio di distinguersi, di superare chicchessia.
A Nazaret si viveva la vita dei figli di Dio; il tempo si era fermato. Si viveva in quel particolare atteggiamento che caratterizzò la vita dei patriarchi: in una profonda familiarità con Dio e attenti al mistero di Dio.

Giuseppe ha lavorato; ha condotto la vita dell’operaio, meglio, dell’artigiano di allora. Gesù lo ha aiutato: era normale che lo aiutasse e lavorasse con lui. Lavorò come lavorano tutti; i suoi lavori, non si distinguevano particolarmente da quelli degli altri artigiani. Nessuno si è accorto di Lui. Quando inizierà la vita pubblica desterà meraviglia appunto perché nessuno l’aveva notato.
Lavorò con la dedizione al lavoro tipica del popolo ebraico: una serena fatica, una laboriosità ordinata.
Non inventò nuovi strumenti di lavoro; non progettò cose più grandi di quelle che l’artigiano, il falegname di allora poteva fare. Ubbidì a questa mentalità, rispettò le tradizioni del suo popolo. Aspettò il tempo; volle aspettare il suo tempo.
Poiché viveva del suo lavoro, come la vera povertà esige, faceva i suoi lavori alla stessa maniera e con la stessa retribuzione degli altri. Nulla di straordinario che assomigliasse al regalo o al dono.
Gesù partecipava alla vita del suo popolo, frequentava il suo ambiente, presenziava alle feste, a tutte le manifestazioni. Visse così la vita di ogni giorno come i suoi compagni, ebbe confidenza con gli altri, non diffidò di nessuno. Per tutti era di casa; tutti lo conoscevano, non sfuggiva nessuno. Il tenore di vita a Nazaret non era particolare come viceversa erano particolari i membri della famiglia con la singolarità dei suoi personaggi.
Giuseppe esercitò la sua autorità senza soggezione e senza invadenza, con assoluta fedeltà. Maria esercitò la maternità nei confronti di Gesù, come ogni mamma: visse, di fede, di profonda fede. E tuttavia, per questo le difficoltà non furono minori. E Gesù visse, come ogni altro figlio, la vita di famiglia, la sua vita, come ogni israelita del suo tempo, del tempo di Dio.

Vita normale, senza spiegazioni particolari che la giustificassero. Non era neppure spiegata da un senso di straordinarietà o di eccezionalità: era giustificata e spiegata solo agli occhi di Dio.
Questa lunga vita di Gesù a Nazaret dobbiamo attentamente contemplare tentando di intuirne il mistero. È forse più grande l’amore racchiuso in una vita normale che in una eccezionale; per entusiasmo si può anche morire per un fratello, ma solo per santità e per amore uno accetta di scomparire per un altro.
Gesù porterà questa mentalità – la tradizione familiare di Nazaret! – per tutta la vita, sino alla croce. Solo comprendendo Nazaret riusciremo a capire il mistero della nostra vita, riusciremo a scoprire il mistero di Dio nella normalità del quotidiano.
Se manca questa profondità nazaretana nella nostra vita cristiana, qualsiasi vocazione specifica attuiamo nel mondo e nella Chiesa, andremo alla ricerca di cose eccezionali, entusiasmanti, ma non riusciremo ad accettare la normalità e peggio non la potremo sopportare.
«Ho messo le mie radici fra un popolo»; «Ha posto la sua tenda in mezzo a noi; e abbiamo contemplato la sua gloria» (cf. Gv1,11s.).
Nei trent’anni di Nazaret Gesù ha salvato il mondo come nei tre anni di vita pubblica. Salvezza per il Signore non significa agitarsi, ma essere Dio: per questo Gesù è salvatore sempre!

Gian Carlo Sibilia jc

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