1 Domenica di Avvento – Anno B  - 3 dicembre 2023

<<Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: “Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento… fate in modo che il padrone di casa, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”>> (Mc 13, 33-37) 

La prima domenica di Avvento si apre con la conclusione del discorso che Gesù rivolge a quattro suoi discepoli (Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea) stando sul monte degli Ulivi, “seduto di fronte al tempio” (Mc 13,3). L’imperativo “vegliate”, che orienta lo sforzo spirituale richiesto a ogni credente, va ben oltre i quattro primi destinatari delle parole di Gesù e raggiunge tutti i lettori del vangelo e tutte le comunità cristiane: “Quello che dico a voi lo dico a tutti: vegliate!” (Mc 13,37).

 

      La chiesa è così situata nella storia come sentinella che veglia nell’attesa della venuta gloriosa del Signore. Venuta certa, ma di cui si ignora il quando: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli in cielo né il Figlio, eccetto il Padre” (Mc 13, 32). E proprio questa “ignoranza” esige la vigilanza. Vigilanza che non può ovviamente essere intesa letteralmente come un materiale non dormire, tanto più che la venuta del Signore viene situata, nel nostro testo, in una delle quattro veglie in cui i romani suddividevano la notte. Dio viene di notte, per questo è necessario vegliare.

 

               La notte, non semplicemente quella cronologica, ma il momento in cui soltanto le ragioni del cuore possono avere la meglio. Perché continuare ad attendere se non per quel di più di cui soltanto il cuore è capace? La ragione ti direbbe: “lascia perdere”; il cuore, invece, ti dice: “Se indugia, attendilo”. Ogni attesa, allora, diventa una promessa, ogni silenzio una possibilità.  Sì, Dio viene di notte. Lo riconosce solo chi è abitato da una passione intensa, chi sa di essere fatto per un incontro, chi riesce a togliere il velo che copre eventi e incontri. Dio non si svela che nella penombra, quasi un passaggio clandestino tra la sera e il mattino. Se Dio prende la parola, non è mai urlata, è piuttosto un leggero mormorio di vento che può ascoltare solo chi è disposto ad offrire accoglienza. Non ti prende mai per fame. Se rimprovera, lo fa cercando il tuo sguardo e chiamandoti ancora “amico”. Se riabilita, lo fa dopo averti fatto toccare con mano quanto gli stai a cuore e perciò ti chiede: “mi vuoi bene?”.

 

               E la notte è il tempo in cui occorre lottare contro la pesantezza del corpo e dell’animo. In cui più che mai si deve attuare la vocazione dei cristiani ad essere “luce”, ma una luce sempre accolta e custodita come dono e responsabilità. La notteè simbolo di tempi bui, di tenebre interiori e storiche, personali e comunitarie, civili ed ecclesiali. E’ il nostro oggi! Si tratta di abitare la notte acuendo lo sguardo spirituale, lottando contro la pigrizia, l’indifferenza, la nostalgia, vigilando. L’attesa della venuta del Signore diviene così sforzo di discernimento dei segni della sua presenza.

 

Forse la prima cosa che ha bisogno di essere risvegliata in noi non è tanto la forza di volontà, quanto la coscienza di un esilio in cui ci troviamo e da cui nasce quell’invocazione accorata che sarà sempre l’anima, il respiro di ogni credente e della chiesa tutta, per dire il nostro bisogno di salvezza anche in questo tempo che stiamo vivendo. Un tempo difficile e complesso, colmo di fatica, di domande che stentano a trovare risposta, avvolto nella penombra, ma che non vuole consegnarsi alla morte. Quel grido che il profeta Isaia raccoglie e offre al cielo a nome di un popolo esausto e triste che, forse come noi, è tentato di rinunciare a tenere desti i desideri più grandi: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63, 19).

Se Dio è stato fedele rispondendo all’invocazione del profeta nell’umanissima carne di Gesù di Nazaret, sarà fedele alla promessa che Gesù, il Signore, ci ha fatto prima di salire al Padre dopo la Pasqua: ritornerà!

 

               Avvento allora è tempo per far rinascere e dare vigore alla speranza nutrendola della memoria dell’amore fedele di un Dio che si è fatto carne per dare forza alle ginocchia che vacillano e per dire agli smarriti e ai rassegnati: “coraggio, non temete, anche dalle macerie la vita rinasce”. E riuscire a dire con semplicità e fiducia profonda: “Signore, tu sei nostro Padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani”(Is 64, 7).

 

               Un primo effetto di questo grido potrebbe essere proprio l’apertura degli occhi: non quelli di Dio, abituati da sempre a vegliare su di noi, ma i nostri, non di rado socchiusi e distratti. La parabola evangelica ci aiuta a ricordare in quale situazione tutti ci troviamo e di cui non sempre abbiamo piena consapevolezza: “E’ come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare”. La prima responsabilità è di ritrovare la fierezza di abitare e di condividere una casa comune dove a ciascuno è stato dato un “potere” e un “compito”, adeguato alle sue capacità.

 

               Avvento, allora, come tempo di vigilanza perché la storia è la nostra “casa” ed è “una cosa seria” che non può essere vissuta tra i fumi dell’inconsapevolezza o nell’incoscienza del sonno. Vegliare è vivere la storia con lo sguardo fisso all’orizzonte da cui sorgerà il Sole di giustizia, Cristo Signore, che tornerà, squarcerà ancora i cieli e tutto porterà a compimento. Si!, noi abbiamo sete di compimenti. Pur sperimentando nel nostro oggi il frutto maturo delle nostre lotte e delle nostre fatiche, ci riconosciamo in una perenne sete di compimenti. Proprio questa sete ci fa pronunciare il “Maranathà” nel quale riconosciamo di non essere sufficienti a noi stessi e che abbiamo bisogno di un Altro che venga a portare a compimento quello che abbiamo iniziato. Sete tormentosa, la nostra, perché in tanti giorni è gravata dalle nostre contraddizioni, dalle nostre lentezze, dal sentore di “incompiuto” che sempre ci porteremo dentro.

 

 Così riparte un nuovo anno liturgico: con un grido che si leva, occhi che si aprono, cuori che si scaldano, piedi che si incamminano per riprendere con più consapevolezza a coinvolgersi senza dissolversi, a sognare senza illudersi, a riconoscere in ogni momento un compito da svolgere. Con silenziosa e invincibile speranza.

 

 

Gigi Toma